Se la paranoia è una virtù, Pynchon è il suo profeta e “L’Incanto del lotto 49” il suo vangelo. Romanzo breve del 1966 in cui Pynchon focalizza la domanda oggi più nitida che mai: chi decide cosa conta come messaggio; come l’autorità impone un senso controllando il canale di comunicazione.
A sorpresa, Oedipa Maas viene nominata esecutrice testamentaria di un suo ex amante e precipita in un’indagine squinternata su un contro-sistema postale che forse esiste e forse no, forse è un elaborato mezzo postumo per prendersi gioco di lei. L’enigma funziona come dispositivo conoscitivo datato indietro di millenni. Una trama sgranata, impalpabile ma, una volta scoperta, inequivocabile, di segni in cui Pynchon abbozza una fenomenologia delle infrastrutture come costituenti del senso stesso: timbri modificati, francobolli con dettagli spuri, cassette della posta alternative, corni e postiglioni improbabili, palinsesti storiografici che diventano teatrali, mediatori onirici che danno corpo — evanescente — a protocolli rivali che sfidano lo standard postale ufficiale, fino a rimettere in discussione il monopolio sulla certificazione della realtà. Apostolo e anti-eroe del cospirazionismo, Pynchon fa tracimare un linguaggio insieme poetico, eccessivo, criptico, travolgente, dileguante, appassionante e, semplicemente, troppo; una tessitura di citazioni, rimandi, controcampi e chiaroscuri che balla tra la letteratura altissima e la più infima delle note pop.
Non c’è una licenza di complotto, ma una richiesta di sospensione dei privilegi dell’infrastruttura dominante, un anarchismo strutturale in understatement. Il romanzo mostra che ogni rete produce comunità interpretative, intenzionali e residuali: utenti che negoziano regole, inventano segni, riassemblano i flussi, propagano incostanze. La paranoia è il nome satirico di questa contro-ermeneutica: non delirio, ma percezione che i protocolli non sono neutri e che l’informazione è sempre mezzo di trasferimento del potere. Nel finale aperto, l’attesa dell’“incanto” sposta l’interesse dal “sapere la verità” al “chi può farla valere”, lasciando il lettore, solo e spaesato, davanti a un bivio metodologico più che a un colpo di scena conclusivo.
Ineludibile la correlazione con “il mezzo è il messaggio” di McLuhan (1964): il canale riplasma percezione e relazioni sociali più del contenuto che veicola. “L’Incanto del lotto 49” lo mette in scena: il medium non è contenitore neutro, è architettura che crea pubblico, esclusioni e possibilità di senso. La “cospirazione” stessa esiste solo se una rete alternativa fornisce regole d’uso e riconoscimento ai suoi utenti.
McLuhan però è mcluhaniano in modo ingenuo, cosa che Pynchon si guarda bene dall’essere. Se il primo tende al determinismo delle forme e alla regolarità del senso, il secondo insiste sulle ambiguità del rumore e dei contro-usi, cosicché il medium struttura il messaggio ma non lo decide da solo: sono le contro-istituzioni, i contro-poteri e le loro pratiche d’interpretazione e di costruzione degli “alternative facts” a filtrare i segni e costruire la contro-informazione. Il sistema postale clandestino offre, incluso nel prezzo, la paranoia; quella stessa paranoia che ci attanaglia sapendo quanto resti incerto il confine tra segnale veritiero e “allucinazioni”, cioè la pareidolia (e qui sfiora l’IA).
A Pynchon ora daranno il Nobel, poco ma certo. Si dice che l’abbia scampato da tempo e l’orizzonte storico odierno gli è favorevole. È anche lo scrittore americano più amato nei campus, dove piovono i corsi proprio su questo romanzo perché più breve e lineare degli altri. È anche il meno considerato nella sempre più centralista Europa.
Così Pynchon sposta l’asse dalla verità dei contenuti alla politica dei mezzi: non ci dice solo che il mezzo plasma (ma non è) il messaggio, ci mostra che la concorrenza tra mezzi produce mondi incompatibili di prova, fiducia e appartenenza. L’anarchia delle reti non elimina l’ordine: lo moltiplica, lo frammenta e costringe a interrogare chi controlla i protocolli e l’accesso. Una lezione di stretta attualità, oggi.
Riferimenti
- Thomas Pynchon, The Crying of Lot 49, J. B. Lippincott & Co., 1966; ultima ristampa 2012, collane Penguin/PRH. Penguin Random House.
- Thomas Pynchon, L’incanto del lotto 49, Einaudi, 2023. Einaudi.
- Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 2015. Il Saggiatore
Se la paranoia è una virtù, Pynchon è il suo profeta e “L’Incanto del lotto 49” il suo vangelo. Romanzo breve del 1966 in cui Pynchon focalizza la domanda oggi più nitida che mai: chi decide cosa conta come messaggio; come l’autorità impone un senso controllando il canale di comunicazione.
A sorpresa, Oedipa Maas viene nominata esecutrice testamentaria di un suo ex amante e precipita in un’indagine squinternata su un contro-sistema postale che forse esiste e forse no, forse è un elaborato mezzo postumo per prendersi gioco di lei. L’enigma funziona come dispositivo conoscitivo datato indietro di millenni. Una trama sgranata, impalpabile ma, una volta scoperta, inequivocabile, di segni in cui Pynchon abbozza una fenomenologia delle infrastrutture come costituenti del senso stesso: timbri modificati, francobolli con dettagli spuri, cassette della posta alternative, corni e postiglioni improbabili, palinsesti storiografici che diventano teatrali, mediatori onirici che danno corpo — evanescente — a protocolli rivali che sfidano lo standard postale ufficiale, fino a rimettere in discussione il monopolio sulla certificazione della realtà. Apostolo e anti-eroe del cospirazionismo, Pynchon fa tracimare un linguaggio insieme poetico, eccessivo, criptico, travolgente, dileguante, appassionante e, semplicemente, troppo; una tessitura di citazioni, rimandi, controcampi e chiaroscuri che balla tra la letteratura altissima e la più infima delle note pop.
Non c’è una licenza di complotto, ma una richiesta di sospensione dei privilegi dell’infrastruttura dominante, un anarchismo strutturale in understatement. Il romanzo mostra che ogni rete produce comunità interpretative, intenzionali e residuali: utenti che negoziano regole, inventano segni, riassemblano i flussi, propagano incostanze. La paranoia è il nome satirico di questa contro-ermeneutica: non delirio, ma percezione che i protocolli non sono neutri e che l’informazione è sempre mezzo di trasferimento del potere. Nel finale aperto, l’attesa dell’“incanto” sposta l’interesse dal “sapere la verità” al “chi può farla valere”, lasciando il lettore, solo e spaesato, davanti a un bivio metodologico più che a un colpo di scena conclusivo.
Ineludibile la correlazione con “il mezzo è il messaggio” di McLuhan (1964): il canale riplasma percezione e relazioni sociali più del contenuto che veicola. “L’Incanto del lotto 49” lo mette in scena: il medium non è contenitore neutro, è architettura che crea pubblico, esclusioni e possibilità di senso. La “cospirazione” stessa esiste solo se una rete alternativa fornisce regole d’uso e riconoscimento ai suoi utenti.
McLuhan però è mcluhaniano in modo ingenuo, cosa che Pynchon si guarda bene dall’essere. Se il primo tende al determinismo delle forme e alla regolarità del senso, il secondo insiste sulle ambiguità del rumore e dei contro-usi, cosicché il medium struttura il messaggio ma non lo decide da solo: sono le contro-istituzioni, i contro-poteri e le loro pratiche d’interpretazione e di costruzione degli “alternative facts” a filtrare i segni e costruire la contro-informazione. Il sistema postale clandestino offre, incluso nel prezzo, la paranoia; quella stessa paranoia che ci attanaglia sapendo quanto resti incerto il confine tra segnale veritiero e “allucinazioni”, cioè la pareidolia (e qui sfiora l’IA).
A Pynchon ora daranno il Nobel, poco ma certo. Si dice che l’abbia scampato da tempo e l’orizzonte storico odierno gli è favorevole. È anche lo scrittore americano più amato nei campus, dove piovono i corsi proprio su questo romanzo perché più breve e lineare degli altri. È anche il meno considerato nella sempre più centralista Europa.
Così Pynchon sposta l’asse dalla verità dei contenuti alla politica dei mezzi: non ci dice solo che il mezzo plasma (ma non è) il messaggio, ci mostra che la concorrenza tra mezzi produce mondi incompatibili di prova, fiducia e appartenenza. L’anarchia delle reti non elimina l’ordine: lo moltiplica, lo frammenta e costringe a interrogare chi controlla i protocolli e l’accesso. Una lezione di stretta attualità, oggi.
Riferimenti