Recensioni

La cultura, murata viva

Walled Culture di Glynn Moody racconta la Guerra del Copyright, le tattiche e le azioni legali delle aziende dei contenuti e i processi che hanno portato alle legislazioni europee e americane sul copyright.

Per 30 anni il giornalista Glynn Moody, con i suoi articoli su Wired, The Guardian, Daily Telegraph, New Scientist, The Economist e Financial Times, ha seguito ciò che avveniva nel cuore della proprietà intellettuale. Il suo ultimo libro, Wallled Culture, è la sintesi, molto documentata, di quella che può essere chiamata Guerra del Copyright e può essere visto come una continuazione, nel campo dell’attualità, del volume degli economisti Michele Boldrin e David Levine, Against Intellectual Monopoly (Cambridge University Press, 2008, trad. It. Laterza 2012). 

Se Boldrin e Levine, partendo da assunti sia storicamente che economicamente fondati, mostrano come il copyrightassolva più un valore censorio e anti-competitivo che di incentivo e supporto alla creatività, Moody traccia una minuziosa ricostruzione di tutte le azioni e le

 tecniche anti-competitive attraverso le quali gli editori commerciali sono riusciti ad imprigionare la cultura. Registra inoltre le attività di lobbying più importanti che hanno portato alle recenti legislazioni sul campo, sia negli Stati Uniti che in Europa.

Il titolo Walled Culture, fa riferimento diretto alla modalità usata dalle piattaforme dei social network per imprigionare il contenuto prodotto dagli utenti. Si parla di Walled Garden perché, come in un giardino recintato, tutte le informazioni, per la massima parte create gratuitamente dagli stessi utenti, vengono protette e nascoste attraverso muri digitali che ne impediscono la fruibilità all’esterno della piattaforma stessa. Gran parte dei servizi di Google, Facebook, Instagram o TikTok funzionano in questo modo, in opposizione alla modalità classica di pubblicazione aperta diffusa, ad esempio tramite forum o blog, con i protocolli di Internet.

Il libro si apre con una retrospettiva storica che si concentra sulle attività della Internet Infrastructure Task Force (IITF) durante il mandato Clinton (1993) sotto la guida del senatore Bruce Lehman, in precedenza commissario dell’ufficio brevetti e che successivamente sarà uno dei più fondamentalisti sostenitori della proprietà intellettuale. Moody racconta come Lehman abbia prodotto una proposta di legislazione fortemente lesiva dell’equilibrio tra interessi commerciali e diritto dei cittadini alla cultura, un equilibrio che sarebbe invece determinante nel copyright. Di fronte all’impasse generata dalle feroci critiche ottenute dalla sbilanciata proposta IITF, accusata di essere un impedimento allo sviluppo di una new economy che al tempo appariva molto promettente, Lehmann avrebbe provato a manipolare il processo legislativo statunitense forzando le decisioni della conferenza diplomatica transnazionale del WIPO, usando una tecnica di policy laundering, uno stratagemma che «sarebbe stato usato molte altre volte in futuro». Se approvata come trattato WIPO, gli Stati Uniti sarebbero stati obbligati a ratificare la legislazione Lehman a dispetto delle critiche interne. Ma anche il trattato WIPO fu a sua volta limitato e le fasi finali a livello nazionali si persero nello strenuo tentativo di impedire ogni possibile esenzione al copyrightAlla fine, ne venne fuori la legislazione DMCA (Digital Millenium Copyright Act). L’ottimale per l’industria del copyright sarebbe stata la possibilità di poter perseguire chiunque non richiedesse una specifica licenza sul materiale eventualmente distribuito, anche per scopi leciti e rientranti ragionevolmente nelle previsioni del fair-use. Ottenuto questo, avrebbero potuto usare la grande potenza economica di cui disponevano per impedire ogni idea di pubblico dominio della cultura semplicemente intentando cause a ripetizione. Inoltre avrebbero potuto finanziare l’impresa  imponendo alle nuove imprese tecnologiche il pagamento di pesanti loyalties a prescindere dal materiale effettivamente caricato dagli utenti. Il punto di equilibrio trovato dal DMCA giocò invece a sfavore dell’industria del copyright. I provider tecnologici furono tenuti indenni da responsabilità, con la definizione di safe harbour (porti sicuri) adottando opportuni accorgimenti per il trattamento delle richieste di eventuali violazioni.

Moody mostra molti esempi di come i principali editori abbiano comunque usato l’arma legale come forma di intimidazione per provare a ottenere pronunce spropositate rispetto agli effettivi danni lamentati. Per esempio Brewster Kahle, fondatore di Internet Archive, ha riportato di aver ricevuto una causa che pretenderebbe di impedire la divulgazione di una biblioteca digitale di 1,3 milioni di libri digitalizzati, la massima parte dei quali di pubblico dominio, sulla base della contestazione di una violazione riguardante solo 127 opere peraltro messe a disposizione in prestito senza limiti dalla Open Library, attraverso Internet Archive, durante il periodo del Covid-19 e sempre dando ai detentori dei diritti la possibilità  di escludere i propri titoli dal programma.

Il tema del rapporto tra biblioteche e detentori dei diritti commerciali è rilevante. Il sistema di prestito controllato, come quello usato solitamente da Internet Archive, per cui una biblioteca in possesso di una copia cartacea di un libro potrebbe digitalizzarlo e darlo in prestito online come ebook, senza violare alcuna legge e senza neppure la necessità di speciali permessi, mette in crisi il modello di concessione di licenze limitate che i principali editori vogliono imporre. 

Da un lato quindi ci sarebbe l’uso fair delle biblioteche, che acquisendo il volume avrebbero già remunerato l’editore, e mettendolo a disposizione in modo controllato, cioè senza eccedere l’effettivo posseduto, potrebbero aggiornare il proprio ruolo rendendolo in linea con le moderne tecnologie, dall’altro la pretesa dell’impresa commerciale di impedire del tutto queste forme di condivisione della cultura e monetizzare le proprie rendite di posizione. L’imposizione di questo  sistema sarebbe molto svantaggioso per le biblioteche, che si troverebbero a non aver nulla di reale nei propri scaffali, a pagare perpetuamente per prodotti potenzialmente inutili e a vedersi svanire gli eBook in catalogo sulla base del completo arbitrio dell’editore: un patto leonino che molti considerano inaccettabile.

Boldrin e Levine hanno mostrato che anche senza il monopolio intellettuale esisterebbe un mercato dell’opera creativa eventualmente anche più efficace ed efficiente per il pubblico e sufficientemente remunerativo per autori ed editori.  Moody dettaglia invece le principali iniziative dell’industria dei contenuti per rendere inefficaci o inoffensive queste possibili alternative, come le iniziative legali contro la Grande Biblioteca che a partire dagli anni 2000 Google avrebbe voluto costruire digitalizzando tutto il patrimonio librario, oppure contro Internet Archive che ne ha raccolto il testimone in tempi più recenti.

C’è un altro ambito in cui gli editori hanno impegnato considerevoli risorse per costruire muri che impediscano la condivisione: le pubblicazioni accademica. In un mercato che diventa sempre più concentrato nelle mani di pochissime imprese, e in un processo produttivo e distributivo in cui la presenza di intermediari diventa sempre meno giustificabile le iniziative volte ad impedire la costituzione di archivi totali della ricerca pubblicata o in via di pubblicazione (preprint) rasentano il paradosso.

Secondo Moody, per un ricercatore spesso pagato con soldi pubblici, è difficile oggi convivere serenamente con il dato di fatto che il suo principale prodotto venga venduto a costi molto alti alle stesse istituzioni che pagano per averlo prodotto. I ricercatori sono ostaggio di un sistema contorto che drena risorse dalla collettività verso gli editori senza che questi facciano alcunché di produttivo, se non difendere  i propri utili con cause che, a loro volta, si basano su grandi spese di denaro dei contribuenti per sostenere la pubblica accusa su base penale.  Moody non trascura tutta l’iper-attivismo degli intermediari del copyright per addomesticare il vasto movimento Open Access che sta riscuotendo sempre maggior successo, con una proposta, denominata Gold Open Access, che continuerebbe a perpetrare il loro ruolo di proprietari e distributori della conoscenza accademica, rispetto a quella più lineare e chiara, denominata Green Open Access, che permette agli autori un più completo controllo delle proprie produzioni e alle loro istituzioni paganti la possibilità di collezionare gli articoli nei propri repository da federare progressivamente in un archivio globale della ricerca mondiale.

Né l’attività dei ricercatori, né quelli del sistema di assicurazione della qualità (peer-reviewing) sono infatti remunerati dagli editori, né ormai il processo di disseminazione ha costi rilevanti, eppure il costo della letteratura accademica diventa sempre più oneroso. Moody mostra come le attività degli editori accademici hanno rappresentato un fondamentale impedimento alla costituzione, tecnicamente possibile, di un catalogo unico e omnicomprensivo della ricerca accademica parlando della fondazione di iniziative come PLOS, PubMed o BioMed e dell’attività di lobbyng contraria che hanno generato.

 L’impegno delle istituzioni nella tutela del copyright, senza la necessaria considerazione del diritto alla conoscenza, sembra mettere al riparo i detentori dei diritti da pratiche commerciali che se fossero condotte da altre imprese provocherebbero, oltre che sdegno e riprovazione, l’immediata attenzione delle stesse autorità pubbliche, che invece affrontano questo campo con rara e certamente sospetta inerzia. Ad esempio, Moody racconta che in UK durante il periodo del Covid-19, con grande fanfara e congratulazioni da parte delle istituzioni, i principali editori accademici annunciarono che avrebbero aperto gratuitamente le proprie collezioni di ebook per le università. Una mossa che sembrò molto generosa, che però in grande silenzio fu rimangiata dopo qualche settimana imponendo alle università a sottoscrivere costosi abbonamenti boundled o licenze singole per gli ebook il cui costo superava il 500% l’equivalente cartaceo.  «I più cinici potrebbero concludere che la generosa offerta iniziale non era altro che uno stratagemma per manipolare il mercato, costringendo le biblioteche, nel disperato tentativo di sostenere gli studenti in remoto, a sottoscrivere modelli di abbonamento agli ebook costosi e non sostenibili» (p. 37). 

Il rapporto tra bibliotecari ed editori, specialmente in alcuni paesi come gli Stati Uniti, si è notevolmente incrinato negli ultimi anni quando questi ultimi hanno iniziato a praticare politiche di prezzo e di prodotto orientate a cancellare l’utilità sociale delle biblioteche e il loro ruolo di diffusione culturale specialmente verso i meno abbienti non in grado di spendere e quindi di nessuna utilità per gli editori. La mancata pubblicazione in volume cartaceo e la diffusione con licenze limitate temporalmente degli ebook rendono il ruolo di conservazione delle biblioteche impossibile, l’aumento spropositato dei costi senza alcuna giustificazione e le azioni legali per impedire la digitalizzazione e il prestito controllato rendono l’attività bibliotecaria sia insostenibile economicamente che pericolosa legalmente. Eppure, mai come in questo periodo l’aumento del costo d’accesso alla cultura sta tagliando fuori dalla produzione culturale e accademica intere aree della popolazione anche dei paesi più sviluppati, e intere popolazioni del mondo che non possono permettersi i costi del materiale accademico, pur essendo ben consapevoli che solo lo sviluppo del capitale sociale genera le più efficaci possibilità di benessere. Una considerazione che le istituzioni, così ben disposte a supportare le pretese dei sostenitori dello sfruttamento commerciale del copyright ormai stanno totalmente trascurando.

Esattamente come predetto nel volume di Boldrin e Levine, le tecniche intimidatorie del copyright si sono trasformate in vera e propria censura di comportamenti perfettamente leciti dei cittadini, senza che nessuna istituzione abbia inteso difendere quest’ambito del Bene Comune. L’abuso del DMCA, con l’adozione delle intimazioni comunemente chiamate Notice and Take Down, ovvero lettere con sostanziali minacce legali da parti di studi legali, spesso all’indirizzo di realtà non in grado di competere legalmente, ha dato luogo quello che è stato chiamato Chilling Effect con l’obiettivo di congelare appunto ogni forma di dissenso, o anche solo di opinione contraria. Queste previsioni normative prescrivono che gli intermediari, come i gestori di piattaforme o social network, possano limitarsi a veicolare le intimazioni agli eventuali responsabili della violazione. In sostanza non ci sono controindicazioni legali a spedire richieste di rimozione di materiale online, anche se sono completamente sbagliate, come quelle generate da programmi automatizzati che rovistano il web per estrarre collegamenti e poi costruiscono intimazioni senza alcuna verifica. Invece un’eventuale risposta, sebbene mostri inconfutabilmente la liceità del comportamento, identifica il rispondente che spesso non ha le competenze legale per scriverla opportunamente e non mette al sicuro da eventuali ritorsioni legali, ma anzi fornisce tutti i dati per iniziare una azione legale, con i relativi costi e rischi. Quello che succede, nei fatti, è che la pratica del notice-and-takedown, visto il suo sostanziale squilibrio a favore dell’aggressore è diventato una delle principali cause di “scomparsa” delle pagine o altro materiale su Internet. Si calcola però, ad esempio nel contesto delle immagini Google, che è il principale intermediario a ricevere queste note, che oltre il 70% di tali intimazioni siano invalide o questionabili. Chi riceve una lettera del genere però raramente ha tempo, voglia e soldi per gestirla e cancella il contenuto anche se è perfettamente lecito.

Nei rari casi in cui questo non avviene e gli studi legali vogliono ricorrere ad una causa, spesso falliscono nel dimostrare l’effettiva legittimazione nell’azione o che l’utilizzo non sia equo e accettabile. Il litigio è però comunque vantaggioso per gli aggressori e mai per gli aggrediti, al punto che il mercato dei litigi in questo è diventato molto fiorente e si è allargato anche alla reputazione online, a cui gli editori fanno sempre più ricorso per godere di un ambito d’azione molto più ampio per le proprie pretese di censura, eppure in questo caso nei giudizi finiscono per avere ancor meno ragione.

Nel resoconto di Moody un intero capitolo è dedicato all’Unione Europa e a quella che considera «la peggior legge sul copyright» basata sull’attiva sorveglianza dei cittadini attraverso i filtri di caricamento del materiale online. Mentre negli USA le società tecnologiche hanno progressivamente conquistato terreno sulla base dei propri migliori risultati di mercato, rintuzzando efficacemente l’aggressione delle imprese dei contenuti, in Europa la situazione è molto differente. In mancanza di un forte settore tecnologico, l’industria dei contenuti, agevolata dalla frammentazione di lingue e strutture legali, ha preteso un aggiornamento dell’Information Society Directive dell’EU del 2001, equivalente alla DMCA.

La nuova direttiva europea avrebbe dovuto anche agire stimolando una revisione, in senso restrittivo, negli Stati Uniti riproponendo quella strategia di policy laundering già vista in precedenza.

Così nel 2013 su iniziativa della Commissione Europea è iniziato un percorso di aggiornamento che prevedeva una vasta consultazione pubblica. La consultazione si è però chiusa con «due visioni completamente incompatibili. I cittadini comuni volevano massimizzare il potenziale di Internet, mentre l’industria del copyright cercava di controllarlo fino all’ultimo collegamento ipertestuale.»  Questa divaricazione ha reso difficile il percorso alla nuova direttiva, mentre invece si dava per scontato il risultato a favore delle grandi imprese dei contenuti. I punti della proposta europea erano gli stessi della proposta Lehman, eliminazione delle vaste eccezioni ed esenzioni per motivi culturali e feroce controllo fino all’ultimo link del contenuto coperto dal diritto d’autore con l’obiettivo, neppure troppo velato, di razziare il mercato pubblicitario raccolto dalle imprese tecnologiche.

Per i successivi cinque anni la dialettica tra Parlamento Europeo (eletto dai cittadini e quindi più in linea con la visione di una cultura condivisa e pubblica, ed eventualmente più propenso a dare valore alle imprese tecnologiche) e Commissione (nominata dai Governi e più esposta alle lobby imprenditoriali europee) fu particolarmente aspra. La proposta non solo disconosceva il valore culturale della condivisione della conoscenza, ma era particolarmente deficitaria anche in tutto ciò che avrebbe potuto essere utile alle imprese per competere nel campo delle nuove tecnologie, come le analisi testuali e di data mining (TDM).   Senza una chiara visione del futuro e guidata da interessi anacronistici, la proposta sul nuovo copyright europeo venne scritta e riscritta ma sempre e comunque consegnando nelle mani dell’industria dei contenuti ogni possibilità di controllo. 

Moody registra i tentativi, invero anche un po’ comici, di alcuni editori europei nel tentativo di imporre, al motore di ricerca di Google, richieste di percentuali di ricavi per il mero utilizzo dei link o dei brevi ritagli, seguite dalla loro eliminazione dai risultati di ricerca, seguite dal tracollo della visibilità dei siti e quindi dalla frettolosa concessione gratuita a Google della licenza che solo poco prima veniva pretesa ad alto prezzo. Peggio di tutti ne uscì il settore editoriale spagnolo che prima esultò per l’imposizione di una legge che pretendeva da Google News una parte dei ricavi pubblicitari, e che ottenne invece la decisione  di Google di chiudere completamente il servizio News in Spagna e da cui risultò il maggior declino di visitatori per i siti delle 18 principali testate nazionali che, evidentemente attraverso Google News scoprivano il contenuto che altrimenti non avrebbero proprio guardato.  

Pur con evidenti e irrisolte fallacie, la direttiva andò avanti rifiutando di ammettere uno ad uno tutti i punti che sarebbero stati indigesti all’industria dei contenuti. A nulla valsero le mobilitazioni di accademici, professionisti e semplici cittadini. Il punto qualificante della proposta fu l’introduzione dei filtri di caricamento (upload filter), una misura tecnologica che, non si sa bene in che modo, dovrebbe discriminare ed escludere il contenuto caricato in un sito mediatore (social network o motore di ricerca, ma anche forum o chat) qualora coperto da una qualche licenza, non ricadente nelle eccezioni previste, né avere un permesso di distribuzione. Una missione impossibile che ha reso l’imposizione dei filtri di upload poco più che cosmetica per i siti di grandi dimensioni e la scusa per aggressioni arbitrarie a quelli medio-piccoli, il che a sua volta ha portato molti siti extraeuropei di filtrare gli utenti provenienti dall’Europa. 

Ciò che però non è cosmetico è quanto fu subito paventato dagli attivisti dei diritti civili e per la privacy che predissero che i filtri di upload si sarebbero presto trasformati in macchine di sorveglianza  e di censura preventiva dei cittadini. Neppure un anno dopo  infatti iniziò la discussione su una nuova direttiva, denominata Chat Control, che assegnerebbe agli stessi operatori che già gestiscono i filtri di upload per il materiale protetto da copyright, il controllo e la denuncia automatizzata sulla base di analisi condotte dall’Intelligenza Artificiale (sic) di situazioni potenzialmente lesive dei diritti dei minori, come violenza e pedopornografia (ma si è già propensi ad estendere la cosa ad altri crimini). Intanto i filtri di upload già attivi su Google Mail hanno quasi fatto finire sotto inchiesta un genitore per aver spedito una foto del figlio affetto da una malattia ai genitali, al proprio pediatra. Un disguido risolto fortunatamente dalle forze dell’ordine che però, a prescindere da tutto, ha portato alla cancellazione totale e definitiva di tutta la vita digitale del povero genitore, tra cui tutte le email e i file e le foto su cloud. 

Moody non manca di far notare come la direttiva sul copyright del 2019, e a maggior ragione, la recente proposta sul controllo delle chat, sono  anche in evidente contrasto con la direttiva generale sulla protezione dei dati (GDPR), che all’Art. 22 dichiara che nessuno dovrebbe essere sottoposto a decisioni basate esclusivamente su automatismi. Una contraddizione che però il relatore per la proposta di direttiva sul copyright (Alex Voss) ha liquidato semplicemente negando quella che già allora era un’evidenza («Nessuno sta filtrando e nessuno filtrerà mai Internet!») e che oggi è invece una normalità. All’Unione Europea quindi non si applica la stessa norma che l’EU pretende di imporre a tutto il mondo.

Lungo, e anche deprimente, è l’elenco dei disguidi a cui andarono incontro i vari organismi dell’Unione nel tratto finale del percorso che portò alla contestata promulgazione della Direttiva. L’inadeguatezza della Direttiva si vede, secondo Moody, anche nella ampia diversificazione con cui è stata adottata dai vari stati europei: dall’implementazione ultra-realista francese, a quella molto lassista tedesca, fallendo quindi proprio in ciò che una direttiva europea dovrebbe servire: l’armonizzazione.

Conclusioni

Il libro di Moody è chiaramente schierato a favore dell’accesso libero alla conoscenza e per il diritto pubblico della cultura, ma certamente non è fondamentalista. Da questo punto di vista la proposta di Boldrin e Levine è di gran lunga più radicale. 

Moody non contesta il copyright in quanto tale, ma il modo in cui è stato inteso ed esteso recentemente dalle imprese che pretendono di imprigionare il contenuto per il proprio esclusivo vantaggio e che, pur sventolando alcune super-star iper-pagate dello show-business, come attori, scrittori o cantanti di successo, mantengono ogni altro lavoratore della catena produttiva e distributiva ai limiti della sussistenza o nel semi-anonimato.

La risposta, dice Moody nel suo ultimo capitolo, è che solo i veri fan possono aiutare la cultura in generale e i creatori in particolare ad uscire dall’oppressione dei grandi manipolatori del contenuto. È una posizione mutuata da un’idea di Kevin Kelly, uno dei fondatori di Wired. Per Kelly basterebbero solo 1000 veri fan disposti a remunerare un creativo per permettergli una vita agiata e libera, e al contempo dargli la possibilità di divulgare gratuitamente le proprie creazioni. Queste conclusioni sono peraltro, in linea con uno studio richiesto proprio dalla Commissione Europea e che venne segretato in quanto rail risultati non erano congruenti con la linea pro-copyright della direttiva.  

Da questo punto di vista il libro di Moody è poco efficace nell’affrontare il tema delle sempre crescenti disparità che anche il copyright sta contribuendo a creare tra chi ha e chi non ha. Trovare i limiti economici sotto cui mantenere il copyright perché risulti abbastanza remunerativo ma non limitante è comunque una prospettiva differente che abolire completamente i monopoli intellettuali per rivitalizzare dalle fondamenta l’economia dei contenuti.