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Così non schwa – Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo

Titolo:  Così non schwa - Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo 
Autore: Andrea De Benedetti
Editore: Giulio Einaudi Editore
ISBN: 9788806254285, 9788858439746
Data di pubblicazione: 2022

Nella contesa sull’introduzione o meno nella lingua italiana dello schwa (ə), il nuovo suono, neutro, e il relativo simbolo, neppure esistente sulle tastiere, si deve dar conto di questo brevissimo pamphlet polemico di Andrea De Benedetti, che ha insegnato Lingua e linguistica italiana all’Università di Granada, giornalista de Il manifesto e collaboratore dell’Academy della Scuola Holden, che si definisce come appartenente a quella schiera di «“progressisti” […] “inclusivi”, che aborrono l’ipocrisia pelosa di chi, insieme al linguaggio inclusivo, vorrebbe liquidare anche i diritti delle categorie che lo reclamano, ma che al tempo stesso rimangono affezionati a un’idea democratica di lingua» e che «ritengono sproporzionata e fuori fuoco l’attenzione rivolta al linguaggio come principale fronte di conflitto e terreno di rivendicazioni» e che inoltre «sono un po’ stufi di sentirsi etichettare come vecchi conservatori attaccati ai loro privilegi di maschi bianchi eterosessuali (o come antifemministe o come femministe transfobiche quando l’«argumentum ad hominem» diventa «argumentum ad mulierem») per il solo fatto di ritenere impraticabili alcune soluzioni e talora pretestuosi i loro presupposti.»

Non tutte le innovazioni linguistiche sono utili o hanno senso, talvolta provengono «dall’alto» e sono molto bene accette perché semplificano e migliorano la lingua come «quella del tedesco del 1996, che ha ridotto le eccezioni ortografiche e sancito la libertà di decidere per gli scriventi su una serie di casi controversi; e quella dello spagnolo del 2010, che tra le altre cose ha eliminato gli accenti diacritici», altre volte (come l’obbligo del “voi” nel Ventennio) rappresentano solo un esercizio di potere, e su questo campo «l’Italia sconta una lunga tradizione di prescrittivismo linguistico, inaugurata nel Rinascimento e protrattasi fino all’epoca fascista». Talvolta invece le innovazioni vengono «dal basso», dalla semplificazione dell’uso comune della lingua orale, come «alcuni tempi verbali ormai virtualmente estinti (il trapassato remoto) o demansionati (il futuro semplice […]), alcuni pronomi (gli) che tendono a fagocitarne altri (le, loro)» secondo un «principio di economia», ovvero «la propensione dei parlanti ad ottimizzare le risorse linguistiche in funzione delle proprie necessità». Altre volte le innovazioni sono proposte da gruppi elitari, spesso con notevoli contrasti all’interno della stessa bolla degli interessati, e poco o alcun effetto, se non controproducente, sulla lingua, si pensi a quando «in seguito a una delle periodiche derive autoparodistiche del politicamente corretto, entrò in uso la locuzione diversamente abile […], che nelle intenzioni dei suoi inventori avrebbe dovuto proporre la condizione di disabilità in una luce positiva» ma che fu considerata «buonista e ipocrita» considerando che «locuzioni simili non fanno che nascondere “la condizione di discriminazione e mancanza di pari opportunità”.»

La forzosa introduzione dello schwa è un’idea «seducente [per] rimuovere dalla lingua gli ostacoli che limitano la piena espressione del sé, promuovere soluzioni che permettano a tutti i parlanti di sentirsi rappresentati, contrastare tutte le parole e le espressioni connotate come offensive e/o discriminatorie, concedere il diritto all’autodeterminazione linguistica – attiva e passiva – a chiunque senta estranee le etichette che la società gli appiccica addosso.» ma «il cammino verso il linguaggio inclusivo è lastricato di buone intenzioni. Ma non di rado conduce […] all’inferno.»

Il punto di avvio della polemica riguarda l’«idea di fondo […] che nelle lingue in generale, e nello specifico in quella italiana, si annida, subdolo e invisibile, il seme di una cultura patriarcale che infesta il discorso pubblico e compromette la piena parità tra i sessi.» Gli indizi «sono numerosi e spesso inoppugnabili»: l’utilizzo della parola uomo per intendere la generalità dei membri della nostra specie, la concordanza al maschile anche quando la maggioranza dei membri del gruppo elencato non è maschile, forme femminili inesistenti (fino a tempi recenti, come ministra o sindaca) o dotate di «strane protesi morfo-lessicali» (-essa, -rice) «per ricalcare il carattere quasi mostruoso e deforme di una femmina che indossa panni professionali tradizionalmente maschili», il «bisogno di distinguere una donna sposata da una non sposata», l’uso dell’articolo per i cognomi femminili e non i maschili, o l’abitudine di chiamare le donne, con maggiore confidenza per nome e non per cognome, come avviene più frequentemente per i maschi, sui mezzi d’informazione e nei luoghi di lavoro «(con la ragguardevole e luminosa eccezione di “Silvio”)» .

Tutto questo assodato nella «nobile tradizione di studi su lingua e genere riassunta, in Italia, dal volume-totem di Alma Sabatini Il sessismo nella lingua italiana» e deciso che «alla presa di consapevolezza [debba] seguire un’azione concreta», già la Sabatini «ne tracciava l’agenda in una serie molto dettagliata di Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana che chiudevano il volume». In tempi recenti però l’asticella si è spinta oltre con la pretesa di introdurre nella lingua il genere neutro, «rilancia[ndo] la proposta già adottata in alcuni ambienti LGBTQ+ di usare il simbolo fonetico dello «schwa» (ə), corrispondente a una vocale intermedia, per evitare il maschile «sovraesteso» e in generale per cancellare il cosiddetto «binarismo» linguistico, quel fenomeno in virtú del quale finiamo per ridurre la varietà delle identità di genere alle categorie grammaticali, e prima ancora antropologiche, di “maschile” e “femminile”.»

Dalla proposta però, secondo De Benedetti, provengono più danni che vantaggi. Lo schwa impone costi ben poco ripagati dagli ipotetici utili sociali.

Le ragioni linguistiche sono chiare: ripristinare un terzo genere in una lingua che ne prevede solo due significa andare controcorrente nell’evoluzione naturale (e quindi democratica) della lingua, con una imposizione prescrittivista poco tollerabile, specie per la storia nazionale. L’«equivoco piú grande» sta nell’idea di imporre un suono e un simbolo per complicare una lingua che evolve in senso di una maggiore semplificazione «nella convinzione che si possa riformare la morfologia di una lingua partendo dallo scritto» ma «le lingue nascono orali» e aggiungere un morfema flessionale, che permettere di distinguere una parola dall’altra e al tempo stesso di identificare il genere, cioè un pezzo fondamentale del pensiero stesso del parlante non è la stessa cosa che aggiungere uno smile, un’emoticon o una parola. «Fonemi e morfemi flessionali costituiscono dei repertori per lo piú chiusi: non se ne possono insomma aggiungere arbitrariamente degli altri senza che questo provochi uno smottamento importante nella struttura della lingua stessa.»

«Il paradosso è che, con la riesumazione del neutro, la lingua non va avanti, ma torna indietro di quasi due millenni, complicando i paradigmi e aggiungendo regole là dove i parlanti erano riusciti, con grande fatica, a semplificarle» a tutto detrimento delle «persone con gravi problemi di accesso alla lingua […] dislessici, sordi e ciechi, […] stranieri e persone provenienti da famiglie culturalmente svantaggiate, senza dimenticare gli anziani.» Infatti «l’acquisizione del genere grammaticale costituisce uno degli ostacoli piú impervi per chi si accinge a imparare l’italiano» e «[p]ersino tra gli italofoni piú giovani e meno istruiti possono riscontrarsi delle difficoltà ad acquisire compiutamente il genere grammaticale quando questo non corrisponda con il sesso o quando vengano violate certe aspettative di regolarità». Ma stranieri, anziani, giovani e meno istruiti, non sono forse una percentuale della popolazione abbastanza rilevante da poter essere presa in considerazione nel costo vivo di questa riforma? «Senza voler opporre retorica ad altra retorica e senza volerne fare un discorso puramente aritmetico, non suona quantomeno incoerente una soluzione che per includere una minoranza ne esclude un’altra non meno discriminata, e oltretutto molto piú numerosa? A meno, naturalmente, che nell’universo inclusivo alcune minoranze siano da considerare piú minoranze di altre, nel qual caso sarebbe inutile continuare a ragionare.»

Una modifica così rilevante nella lingua prevede un complesso di lavori collaterali, ma purtroppo i promotori si sono «limitati a progettare l’opera piú ingente senza avere un piano preciso, coerente e soprattutto condiviso di come» integrarla con il resto della lingua. Ad esempio il pronome soggetto di terza persona singolare (lui, lei) non risulta trattato, se non con una proposta impossibile, come ləi che è «inapplicabile però nell’orale, stante l’incompatibilità dello schwa con la posizione tonica», ma anche «articoli (determinativi e indeterminativi), pronomi atoni oggetto (lo/la, li/le) e complemento (gli/le), preposizioni articolate, nomi indipendenti (fratello/sorella,padre/madre), sui quali, per il momento, vige una certa anarchia».

Quest’anarchia è peraltro ben rappresentata anche dai prodotti commerciali dei vari sostenitori della schwa (De Benedetti cita esempi specifici di Michela Murgia, Vera Gheno o Serena Guidobaldi), dove la proposta che pretenderebbero di imporre agli altri (la schwa o l’asterisco, l’ulteriore grafismo inclusivo persino senza suono associato) viene in realtà usata poco o niente e, quando è adattato, raramente se ne rispettano coerentemente le prescrizioni tanto che Di Benedetti sostiene che «bisogna insomma dare ragione a Cristiana De Santis, a cui si devono alcuni degli interventi piú lucidi ed esaustivi del dibattito sullo schwa, quando osserva con amara ironia la disinvoltura con cui, in questa storia, «”chi si fa le regole da sé stabilisce per sé anche le eccezioni”.»

«Anche sui benefici, peraltro, ci sarebbe da ridire.» Lo schwa non cancella dalla lingua il privilegio maschile di marca patriarcale: «è tutto da dimostrare che la desinenza del maschile non marcato costituisca effettivamente una forma di privilegio […] e se si tratta di [bonificare] la morfologia italiana in chiave non binaria […] da tutti i sedimenti di sessismo [bisogna] cancellare il pronome loro (che viene da illorum, genitivo plurale maschile del pronome dimostrativo ille), e […] sdoganare la forma gli (dal dativo illi), che essendo in latino uguale per maschile, femminile e neutro [può] candidarsi a pronome indiretto unisex sia per il singolare che per il plurale.» Inoltre «non è vero che lo schwa sia un morfema equiparabile al maschile e al femminile e che possa garantire alle persone non binarie parità di condizioni in termini di autorappresentazione», infatti la sola espressione di una propria auto-descrizione con la desinenza in schwa (quindi non amministratore delegato ma amministratorə delegatə), ad esempio in una riunione di lavoro, «rimarcando il tratto non binario della propria identità e mettendo in campo innanzitutto la propria appartenenza a una categoria definita in base al genere, […] non pertinente al contesto» sposterebbe il fuoco del discorso da un contesto professionale a uno identitario, che probabilmente non è neppure nelle intenzioni del parlante voler rappresentare, oltre ad essere quantomeno irrituale da condividere in un contesto affatto pertinente.

Ma usare lo schwa «significa proprio questo: […] dare dimensione pubblica alla propria identità di genere, […] dire prima di ogni altra cosa «io non mi sento maschio né femmina», […] scegliere di presentare, fra tutti i tratti che definiscono un’identità, proprio quello che verrebbe ritenuto giustamente offensivo se qualcun altro lo usasse come primo (e unico) parametro di classificazione.» Lo schwa, «proposto per neutralizzare le differenze di genere, […] finisce invece per amplificarle, laddove sono proprio il maschile e il femminile, in virtú della loro non marcatezza, a disattivarle.»

Due ultimi aspetti vanno trattati. Il primo è dar conto della citazione di George Santayana che apre il libro: «Il fanatismo consiste nel raddoppiare gli sforzi quando hai dimenticato lo scopo ultimo del tuo impegno» (da The Life of Reason, 1905). De Benedetti riconosce che se da un lato il dibattito sullo schwa è limitato all’interno di una «microbolla di intellettuali e militanti che ha, per cosí dire, adottato la causa facendone una sorta di bandiera ideologica». Hanno così creato le condizioni per un conflitto identitario, per lo più svolto con infinite diatribe sui social network, in «una cornice che può essere sintetizzata nei seguenti punti: 1) il linguaggio inclusivo – qualunque cosa si intenda con tale formula – è una condizione necessaria per l’inclusione tout court; 2) tutte le minoranze hanno diritto a vedere rappresentata nella lingua la propria identità, eventualmente anche tramite marche morfologiche; 3) tutte le marche morfologiche che non corrispondano con il genere dell’individuo o degli individui rappresentati sono intrinsecamente discriminatorie; 4) se giustificato da istanze inclusive, ogni mutamento linguistico è buono a prescindere, anche se scardina la struttura portante di una lingua». Al di là del fanatismo e dell’irrazionalismo con cui questi punti sono promossi, nessuno però ha valore cogente. «Hai voglia a ricordare che in molti Paesi dove si parlano lingue prive di genere grammaticale, ad esempio in Turchia o in Iran, le donne se la passano abbastanza peggio rispetto alle omologhe nostrane (non parliamo poi degli omosessuali e dei transgender); che ritenere la lingua al servizio delle identità è un’idea piuttosto ingenua, oltre che potenzialmente pericolosa; che il concetto di discriminazione applicato a un morfema quasi del tutto desemantizzato appare parecchio sproporzionato […]»

Succede che «chi non accetta, in tutto o in parte, questi postulati diventa automaticamente un conservatore, un privilegiato, un prevaricatore, un fascista.» Inevitabile, con simili premesse, che ogni forma di dialogo finisca per naufragare con grave danno della stessa battaglia (che pretenderebbe di convincere tutti a parlare assieme allo stesso modo) ma, e quel che è peggio, di tutte le battaglie, linguistiche ma soprattutto politiche, che vorrebbero il progresso della società verso forme di – non inclusione laddove l’inclusione di qualcuno impone necessariamente una esclusione di qualcun altro – ma di una maggiore coralità, dove ognuno e ciascuno, possa con la propria voce, esprimersi liberamente.

Il secondo aspetto è quindi l’aspetto più cogente dell’argomentazione di De Benedetti: « A che scopo sostituire le parole […] se le intenzioni rimangono le stesse? È peggio un ottantenne che usa senza malizia e «per abitudine» la parola negro o un trentenne che dice «io li affonderei tutti», senza nemmeno il bisogno di sporcarsi le mani con un epiteto offensivo e delegando l’espressione della sua disumanità alla brutalità di un verbo e alla freddezza burocratica di un pronome? Soprattutto: c’è ancora spazio, nel campo progressista, per porsi queste domande, oppure dobbiamo accontentarci di esercitare una sterile egemonia sui significanti, avendo rinunciato da tempo a combattere – e prima ancora a condividere – le battaglie sui significati? Non sarà anzi che abbiamo perso molte battaglie sui significati proprio perché abbiamo puntato troppo sui significanti?»

Emmanuele Somma

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