Titolo: Cloud Empires: How Digital Platforms Are Overtaking the State and How We Can Regain Control
Autore: Vili Lehdonvirta
Editore: The MIT Press
DOI: https://doi.org/10.7551/mitpress/14219.001.0001
ISBN: 9780262047227, 9780262371100
Data di pubblicazione: 2022
Un unico dato riesce a riassumere la potenza delle piattaforme online: eBay, il popolare sito di aste e scambi online, sostiene di aver definito, con soddisfazione delle parti, oltre 60 milioni di dispute in un solo anno. In quello stesso anno il sistema giudiziario inglese, cinese e statunitense ne hanno definite rispettivamente 4, 11 e 90 milioni. « In altre parole – sostiene Vili Lehdonvirta, autore di Cloud Empires – le piattaforme messe assieme risolvono probabilmente più dispute di tutte le corti giudiziarie del mondo ».
L’Economist si chiede « Microsoft è una nazione digitale e ha un ministro degli esteri?» The Atlantic commenta « Apple è sostanzialmente un piccolo stato. » The Guardian rincara « Chi avrebbe bisogno di un governo se Amazon facesse funzionare le cose? ». Sono comparazioni azzardate. Eppure si stima che nel solo 2020 quasi 500 miliardi di dollari di beni sono passati attraverso il solo marketplace di Amazon, cioè una cifra superiore al PIL di molte nazioni che ha permesso all’azienda di Bezos utili per 75 miliardi di dollari.
Le piattaforme applicano regole nazionali o ne creano di sovranazionali, gestiscono in autonomia la giustizia, hanno dimensioni economiche rilevanti, trattano alla pari con i governi e non nascondono la velleità di battere moneta; Danno ai cittadini servizi efficienti a costi ridotti, spesso addirittura gratis. Le piattafore ormai sono una realtà insostituibile della vita quotidiana.
Cloud Empires di Vili Lehdonvirta esamina l’ascesa di questi imperi digitali e ne considera la possibile evoluzione.
Secondo l’autore del libro, le piattaforme « sono diventate i nuovi stati virtuali, » per quanto siano differenti dalle « nazioni terrene ». È necessario, sostiene, « riprenderne il controllo ».
Il modulo scelto è quello di dedicare ogni capitolo alla storia di un imprenditore, personaggio o piattaforma iconici, da Jeff Bezos e Amazon a Pierre Omidyar e eBay.
Ogni storia introduce le principali figure che hanno plasmato l’economia digitale di oggi. Da questo punto di vista, sebbene il libro sia molto ben scritto, non rappresenta una novità. Questi imprenditori di successo sono stati raccontati molte altre volte e spesso anche con molto maggiore dettaglio. Ma esistono nel libro due contributi più originali e che da soli valgono la lettura.
Il primo riguarda la constatazione che le piattaforme digitali globali esercitano una nuova forma di potere sovrano su miliardi di utenti, come mai è stato possibile a nessun potere precedente, stabilendo le regole del gioco e risolvendo le dispute tra le parti. Il libro entra nei dettagli di come le potenti aziende tecnologiche siano diventate entità statali a tutti gli effetti quando si sono dovute confrontare con le difficili sfide della gestione della complessità sociale e dei conflitti politici all’interno dei loro domini digitali.
L’intenzione originaria dei pionieri di Internet era promuovere la trasparenza, la libertà individuale e la libera associazione: sbarazzarsi dei guardiani e delle sovrastrutture nazionali e governative. Alla fine però sono diventati essi stessi le autorità, infrastrutture, guardiani e governi di Internet. Le piattaforme inevitabilmente hanno dovuto assumere via via sempre più funzioni di solito riservate a stati e governi, produrre una propria regolamentazione e risolvere le controversie che si generavano, complementando e innovando i poteri dello stato.
Già Jathan Sadowski in « Too Smart: How Digital Capitalism is Extracting Data, Controlling Our Lives, and Taking Over the World » aveva analizzato come le aziende tecnologiche rivendichino il pieno controllo su determinati servizi pubblici man mano che le piattaforme si radicano nell’economia politica delle città, la visione di Lehdonvirta è ancor più radicale: gli stati nazionali possono solo giocare sulla difensiva quando lottano contro il regno digitale transnazionale. L’imperium, per Lehdonvirta, è ormai già passato alle piattaforme digitali e ciò che dà forza a questo confronto sono le funzioni economiche dello Stato, in cui gli stati territoriali diventano sempre più deboli.
Il libro ha forse il difetto (o il pregio) di considerare ciò che è “Stato” solo quello che è possibile descrivere attraverso una lente economica. Così l’arte di governo diventa solo l’insieme delle « diverse forme di elaborazione e comunicazione delle informazioni » o ciò che « favorisce uno scambio di mercato su larga scala ».
Disconoscendo completamente il valore storico delle comunità nazionali, Lehdonvirta ha la possibilità di esprimere l’affermazione centrale del libro: le piattaforme digitali hanno successo dove gli stati hanno fallito nel creare un’infrastruttura istituzionale transnazionale per facilitare un commercio transfrontaliero efficiente.
Il riconoscimento degli imperi della nuvola (Cloud Empires), come stati a tutti gli effetti, porta quindi alla domanda più fondamentale: in cosa Stati nazionali e questi Imperi differiscono?
Nel libro si sostiene una sola fondamentale differenza, da cui tutte le altre discendono: la giurisdizione fisica dello Stato “terreno” si confronta con il potere delle piattaforme, che è sulle persone, gli utenti. Le piattaforme sono imperi senza territorio, senza proprietà, cioè imperi nella nuvola (« empires in the cloud », da cui il titolo del libro).
Questo limite è, per l’autore, anche l’unica vera forza che rimane agli stati nazionali, il monopolio della violenza sui corpi dei cittadini, che non sono entità di pura informazione. Il punto qui è che, in un certo senso, Lehdonvirta già dà per scontato il sostanziale affrancamento, non fosse che per il corpo fisico, della persona (cittadino/utente) dal proprio stato di appartenenza.
Fatta questa premessa, però il libro non dedica poi una grande attenzione alla funzione politica delle piattaforme, come se non fosse loro interesse organizzare la sfera pubblica digitale o determinare i limiti effettivi del loro operato nelle questioni relative agli aspetti più esplicitamente democratici (libertà di parola, manipolazione delle elezioni, sorveglianza e tecnocontrollo). Lehdonvirta è preoccupato, ma lo pone quasi come dato di fatto quasi ineliminabile, per la mancanza di istituzioni in grado di richiamare le piattaforme alle proprie responsabilità.
Il secondo contributo altamente originale riguarda il confronto che le forze democratiche potrebbero avere con le piattaforme. In questo si chiama in causa il panorama delle criptovalute, le leggi antitrust, gli ambienti lavorativi cooperativi. Sulla base di questo Lehdonvirta propone una democratizzazione delle piattforme sulla base di nuove istituzioni politiche per il processo decisionale collettivo che contrastino il potere dei « patrizi digitali ».
Dovrebbe nascere una nuova classe borghese digitale. Né i sindacati che si formano nei magazzini di Amazon, né le organizzazioni di microlavoratori potranno essere in grado di sfidare il potere delle piattaforme, ma i « membri benestanti di una classe media digitale emergente che possiedono notevoli risorse e connessioni ».
In pratica si tratta degli « sviluppatori [indipendenti] di app, commercianti online, specialisti freelance, streamer, influencer, modelle OnlyFans e vari altri commercianti e artigiani dell’era digitale » che sono ricchi e collegati in rete.
Questa classe media digitale esercita su Lehdonvirta un fascino particolare perché, a differenza dei proletari dell’economia delle piattaforme (gli etichettatori di dati, i moderatori, i censori e gli assistenti di secondo livello agli assistenti virtuali), questo gruppo è istruito, organizzato e possiede già il potere e lo status per intraprendere immediatamente un’azione politica efficace contro i « patrizi digitali ». L’idea è che i loro forum, gruppi di social media e discussioni online potrebbero diventare la base per lo sviluppo di istituzioni democratiche più formali.
Con un’adeguata dote di scetticismo ci si potrebbe chiedere se quelli che stanno molto meglio nel sistema attuale, quelli che hanno ottenuto benessere e potere proprio dalle piattaforme, lotterebbero effettivamente per i diritti e gli interessi dei servi della gleba creati dalle piattaforme.
A parte queste preoccupazioni, c’è un intrigante principio etico al centro del libro che si pone come un invito a cambiamenti radicali nell’attuale organizzazione della sfera digitale. La democrazia della piattaforma sembra implicare il principio di un diritto morale all’autogoverno per gli individui che partecipano a istituzioni che prendono decisioni fondamentali che influiscono sulla loro vita. il politologo Robert Dahl Come ha affermato , « se la democrazia è giustificata nel governo dello stato, allora è giustificata anche nel governo delle imprese economiche ». Mentre trascorriamo una quantità crescente del nostro tempo online, molti hanno iniziato a chiedersi perché hanno così poco controllo sulle loro piattaforme e servizi digitali. In risposta, Lehdonvirta chiede una carta digitale dei diritti fondamentali per limitare il potere dei proprietari di piattaforme e fornire a tutti noi i diritti democratici nel regno digitale.
Questo libro, scritto in modo lucido e coinvolgente, offre una lettura avvincente per coloro che sono interessati a capire come l’attuale generazione di colossi della piattaforma ha stabilito le proprie regole e cosa si può fare per ritenerli più responsabili.
L’analogia storica potrebbe essere interessante, ma presenta quantomeno dei chiaroscuro: le classi medie europee emerse nelle città medievali non produssero riforme democratiche. Conquistato il potere, lo usarono piuttosto per difendere i propri interessi economici in modo corporativo. Le rivoluzioni borghesi (industriale, americana, francese) probabilmente non avrebbero raggiunto risultati efficaci senza l’irrompere sulla scena dei movimenti operai e l’azione dei partiti borghesi troppo spesso si è attestata su mediazioni non raramente antipopolari.
Un principio etico fondamentale e necessario campeggia in tutto lo svolgimento delle storie nel libro ed è tale da esercitare evidentemente sui personaggi dei capitoli e quindi sul lettore quel fascino indiscusso di cambiamenti radicali nell’attuale organizzazione della sfera digitale.
La democrazia delle piattaforme, l’imperium del Cloud, implica il principio di un diritto morale all’autogoverno e all’autodeterminazione per gli individui che partecipano a istituzioni che prendono decisioni fondamentali che influiscono sulla loro vita.
Leggendo Lehdonvirta è difficile non ascoltare l’eco di una teoria politica radicale che prescrive la democrazia tanto nel governo degli stati “terreni”, quanto in quelli “nelle nuvole”, tanto nelle nazioni quanto nelle imprese economiche, come sostiene il politologo americano Robert Dahl in A Preface to Economic Democracy.
Lehdonvirta sostiene la necessità di una carta digitale dei diritti fondamentali per limitare il potere dei proprietari di piattaforme e fornire a tutti noi i diritti democratici nel regno digitale. Una carta dei diritti su cui, una volta tanto noi italiani arriviamo in anticipo, visto che esiste almeno dal 2015, senza aver dato molti frutti.
In definitiva il libro è coinvolgente e offre una lettura lucida della realtà del commercio digitale su Internet. Chi è interessato a capire i fondamentali snodi che hanno portato all’evoluzione dell’attuale generazione di colossi delle piattaforme troverà nel libro tutte le informazioni necessarie. Interessanti anche le proposte per ritenerli più responsabili delle loro azioni, ma questo è certamente un campo troppo aperto per trovare in questo, come in qualsiasi altro libro, un responso definitivo.
Un unico dato riesce a riassumere la potenza delle piattaforme online: eBay, il popolare sito di aste e scambi online, sostiene di aver definito, con soddisfazione delle parti, oltre 60 milioni di dispute in un solo anno. In quello stesso anno il sistema giudiziario inglese, cinese e statunitense ne hanno definite rispettivamente 4, 11 e 90 milioni. « In altre parole – sostiene Vili Lehdonvirta, autore di Cloud Empires – le piattaforme messe assieme risolvono probabilmente più dispute di tutte le corti giudiziarie del mondo ».
L’Economist si chiede « Microsoft è una nazione digitale e ha un ministro degli esteri?» The Atlantic commenta « Apple è sostanzialmente un piccolo stato. » The Guardian rincara « Chi avrebbe bisogno di un governo se Amazon facesse funzionare le cose? ». Sono comparazioni azzardate. Eppure si stima che nel solo 2020 quasi 500 miliardi di dollari di beni sono passati attraverso il solo marketplace di Amazon, cioè una cifra superiore al PIL di molte nazioni che ha permesso all’azienda di Bezos utili per 75 miliardi di dollari.
Le piattaforme applicano regole nazionali o ne creano di sovranazionali, gestiscono in autonomia la giustizia, hanno dimensioni economiche rilevanti, trattano alla pari con i governi e non nascondono la velleità di battere moneta; Danno ai cittadini servizi efficienti a costi ridotti, spesso addirittura gratis. Le piattafore ormai sono una realtà insostituibile della vita quotidiana.
Cloud Empires di Vili Lehdonvirta esamina l’ascesa di questi imperi digitali e ne considera la possibile evoluzione.
Secondo l’autore del libro, le piattaforme « sono diventate i nuovi stati virtuali, » per quanto siano differenti dalle « nazioni terrene ». È necessario, sostiene, « riprenderne il controllo ».
Il modulo scelto è quello di dedicare ogni capitolo alla storia di un imprenditore, personaggio o piattaforma iconici, da Jeff Bezos e Amazon a Pierre Omidyar e eBay.
Ogni storia introduce le principali figure che hanno plasmato l’economia digitale di oggi. Da questo punto di vista, sebbene il libro sia molto ben scritto, non rappresenta una novità. Questi imprenditori di successo sono stati raccontati molte altre volte e spesso anche con molto maggiore dettaglio. Ma esistono nel libro due contributi più originali e che da soli valgono la lettura.
Il primo riguarda la constatazione che le piattaforme digitali globali esercitano una nuova forma di potere sovrano su miliardi di utenti, come mai è stato possibile a nessun potere precedente, stabilendo le regole del gioco e risolvendo le dispute tra le parti. Il libro entra nei dettagli di come le potenti aziende tecnologiche siano diventate entità statali a tutti gli effetti quando si sono dovute confrontare con le difficili sfide della gestione della complessità sociale e dei conflitti politici all’interno dei loro domini digitali.
L’intenzione originaria dei pionieri di Internet era promuovere la trasparenza, la libertà individuale e la libera associazione: sbarazzarsi dei guardiani e delle sovrastrutture nazionali e governative. Alla fine però sono diventati essi stessi le autorità, infrastrutture, guardiani e governi di Internet. Le piattaforme inevitabilmente hanno dovuto assumere via via sempre più funzioni di solito riservate a stati e governi, produrre una propria regolamentazione e risolvere le controversie che si generavano, complementando e innovando i poteri dello stato.
Già Jathan Sadowski in « Too Smart: How Digital Capitalism is Extracting Data, Controlling Our Lives, and Taking Over the World » aveva analizzato come le aziende tecnologiche rivendichino il pieno controllo su determinati servizi pubblici man mano che le piattaforme si radicano nell’economia politica delle città, la visione di Lehdonvirta è ancor più radicale: gli stati nazionali possono solo giocare sulla difensiva quando lottano contro il regno digitale transnazionale. L’imperium, per Lehdonvirta, è ormai già passato alle piattaforme digitali e ciò che dà forza a questo confronto sono le funzioni economiche dello Stato, in cui gli stati territoriali diventano sempre più deboli.
Il libro ha forse il difetto (o il pregio) di considerare ciò che è “Stato” solo quello che è possibile descrivere attraverso una lente economica. Così l’arte di governo diventa solo l’insieme delle « diverse forme di elaborazione e comunicazione delle informazioni » o ciò che « favorisce uno scambio di mercato su larga scala ».
Disconoscendo completamente il valore storico delle comunità nazionali, Lehdonvirta ha la possibilità di esprimere l’affermazione centrale del libro: le piattaforme digitali hanno successo dove gli stati hanno fallito nel creare un’infrastruttura istituzionale transnazionale per facilitare un commercio transfrontaliero efficiente.
Il riconoscimento degli imperi della nuvola (Cloud Empires), come stati a tutti gli effetti, porta quindi alla domanda più fondamentale: in cosa Stati nazionali e questi Imperi differiscono?
Nel libro si sostiene una sola fondamentale differenza, da cui tutte le altre discendono: la giurisdizione fisica dello Stato “terreno” si confronta con il potere delle piattaforme, che è sulle persone, gli utenti. Le piattaforme sono imperi senza territorio, senza proprietà, cioè imperi nella nuvola (« empires in the cloud », da cui il titolo del libro).
Questo limite è, per l’autore, anche l’unica vera forza che rimane agli stati nazionali, il monopolio della violenza sui corpi dei cittadini, che non sono entità di pura informazione. Il punto qui è che, in un certo senso, Lehdonvirta già dà per scontato il sostanziale affrancamento, non fosse che per il corpo fisico, della persona (cittadino/utente) dal proprio stato di appartenenza.
Fatta questa premessa, però il libro non dedica poi una grande attenzione alla funzione politica delle piattaforme, come se non fosse loro interesse organizzare la sfera pubblica digitale o determinare i limiti effettivi del loro operato nelle questioni relative agli aspetti più esplicitamente democratici (libertà di parola, manipolazione delle elezioni, sorveglianza e tecnocontrollo). Lehdonvirta è preoccupato, ma lo pone quasi come dato di fatto quasi ineliminabile, per la mancanza di istituzioni in grado di richiamare le piattaforme alle proprie responsabilità.
Il secondo contributo altamente originale riguarda il confronto che le forze democratiche potrebbero avere con le piattaforme. In questo si chiama in causa il panorama delle criptovalute, le leggi antitrust, gli ambienti lavorativi cooperativi. Sulla base di questo Lehdonvirta propone una democratizzazione delle piattforme sulla base di nuove istituzioni politiche per il processo decisionale collettivo che contrastino il potere dei « patrizi digitali ».
Dovrebbe nascere una nuova classe borghese digitale. Né i sindacati che si formano nei magazzini di Amazon, né le organizzazioni di microlavoratori potranno essere in grado di sfidare il potere delle piattaforme, ma i « membri benestanti di una classe media digitale emergente che possiedono notevoli risorse e connessioni ».
In pratica si tratta degli « sviluppatori [indipendenti] di app, commercianti online, specialisti freelance, streamer, influencer, modelle OnlyFans e vari altri commercianti e artigiani dell’era digitale » che sono ricchi e collegati in rete.
Questa classe media digitale esercita su Lehdonvirta un fascino particolare perché, a differenza dei proletari dell’economia delle piattaforme (gli etichettatori di dati, i moderatori, i censori e gli assistenti di secondo livello agli assistenti virtuali), questo gruppo è istruito, organizzato e possiede già il potere e lo status per intraprendere immediatamente un’azione politica efficace contro i « patrizi digitali ». L’idea è che i loro forum, gruppi di social media e discussioni online potrebbero diventare la base per lo sviluppo di istituzioni democratiche più formali.
Con un’adeguata dote di scetticismo ci si potrebbe chiedere se quelli che stanno molto meglio nel sistema attuale, quelli che hanno ottenuto benessere e potere proprio dalle piattaforme, lotterebbero effettivamente per i diritti e gli interessi dei servi della gleba creati dalle piattaforme.
A parte queste preoccupazioni, c’è un intrigante principio etico al centro del libro che si pone come un invito a cambiamenti radicali nell’attuale organizzazione della sfera digitale. La democrazia della piattaforma sembra implicare il principio di un diritto morale all’autogoverno per gli individui che partecipano a istituzioni che prendono decisioni fondamentali che influiscono sulla loro vita. il politologo Robert Dahl Come ha affermato , « se la democrazia è giustificata nel governo dello stato, allora è giustificata anche nel governo delle imprese economiche ». Mentre trascorriamo una quantità crescente del nostro tempo online, molti hanno iniziato a chiedersi perché hanno così poco controllo sulle loro piattaforme e servizi digitali. In risposta, Lehdonvirta chiede una carta digitale dei diritti fondamentali per limitare il potere dei proprietari di piattaforme e fornire a tutti noi i diritti democratici nel regno digitale.
Questo libro, scritto in modo lucido e coinvolgente, offre una lettura avvincente per coloro che sono interessati a capire come l’attuale generazione di colossi della piattaforma ha stabilito le proprie regole e cosa si può fare per ritenerli più responsabili.
L’analogia storica potrebbe essere interessante, ma presenta quantomeno dei chiaroscuro: le classi medie europee emerse nelle città medievali non produssero riforme democratiche. Conquistato il potere, lo usarono piuttosto per difendere i propri interessi economici in modo corporativo. Le rivoluzioni borghesi (industriale, americana, francese) probabilmente non avrebbero raggiunto risultati efficaci senza l’irrompere sulla scena dei movimenti operai e l’azione dei partiti borghesi troppo spesso si è attestata su mediazioni non raramente antipopolari.
Un principio etico fondamentale e necessario campeggia in tutto lo svolgimento delle storie nel libro ed è tale da esercitare evidentemente sui personaggi dei capitoli e quindi sul lettore quel fascino indiscusso di cambiamenti radicali nell’attuale organizzazione della sfera digitale.
La democrazia delle piattaforme, l’imperium del Cloud, implica il principio di un diritto morale all’autogoverno e all’autodeterminazione per gli individui che partecipano a istituzioni che prendono decisioni fondamentali che influiscono sulla loro vita.
Leggendo Lehdonvirta è difficile non ascoltare l’eco di una teoria politica radicale che prescrive la democrazia tanto nel governo degli stati “terreni”, quanto in quelli “nelle nuvole”, tanto nelle nazioni quanto nelle imprese economiche, come sostiene il politologo americano Robert Dahl in A Preface to Economic Democracy.
Lehdonvirta sostiene la necessità di una carta digitale dei diritti fondamentali per limitare il potere dei proprietari di piattaforme e fornire a tutti noi i diritti democratici nel regno digitale. Una carta dei diritti su cui, una volta tanto noi italiani arriviamo in anticipo, visto che esiste almeno dal 2015, senza aver dato molti frutti.
In definitiva il libro è coinvolgente e offre una lettura lucida della realtà del commercio digitale su Internet. Chi è interessato a capire i fondamentali snodi che hanno portato all’evoluzione dell’attuale generazione di colossi delle piattaforme troverà nel libro tutte le informazioni necessarie. Interessanti anche le proposte per ritenerli più responsabili delle loro azioni, ma questo è certamente un campo troppo aperto per trovare in questo, come in qualsiasi altro libro, un responso definitivo.
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